domenica 14 luglio 2013

NOTTAMBULI

Quando un dipinto ispira un racconto breve...

Nottambuli di Edward Hopper, 1942 Art Institute of Chicago
Quella notte non riuscivo a dormire. Sentivo solo la necessità di camminare. Mi lasciavo trasportare dalle gambe e dal suono delle suole contro il marciapiede. Tutto era spento e silenzioso, tutto tranne il bar Phillies all'angolo. La luce si rifletteva sulla strada. Alzai lo sguardo. Un uomo di mezza età un po' livido in faccia sedeva da solo, in un lato del bancone triangolare. Lo sguardo perso nel bicchiere mezzo pieno e un giornale ripiegato sotto al gomito. Come assente, non si curava minimamente della coppia davanti a lui o del barista, ma solo di quel liquido giallastro che gli avrebbe fatto dimenticare anche per quella sera i suoi tormenti, e i soldi nel portafogli. Alzò il bicchiere e lo portò alla bocca. Gli occhi si schiusero. Stava assaporando con gusto l'alcool, lasciando andare la sua mente offuscata in una vertigine. La coppia di fronte a lui non parlava. La donna intenta a mangiare e l'uomo troppo impegnato a fumare e ad indicare i contenitori di birra in fondo alla sala al barista per farsi riempire i bicchieri vuoti davanti a loro. L'unico che sembrava fremere dalla voglia di parlare era il barista, che, con sguardo lucido e un sorriso smagliante, si rivolgeva ai suoi clienti ogni volta che lo chiamavano. Lasciandolo però, con una voglia mai soddisfatta. Una compagnia di nottambuli muti. Probabilmente proprio quel silenzio che faceva al caso mio, in quella notte insonne.

Entrai dalla porticina marrone e mi sedetti sullo sgabello di legno. Mi accomodai meglio sul bancone. Con le dita sfiorai il giornale del mio vicino. - Posso? -
Questo si voltò e mi guardò con turbamento. Non mi rispose nemmeno, me lo passò con uno sguardo dolorante. Il giornale si aprì ad una pagina con il titolo: SUICIDIO. Quella parola mi tormentava. Il mio vicino di bancone cominciò a piangere. Non sapevo cosa fare, pensai fosse uno degli effetti della sbornia, così lo lasciai sfogare.
Quasi sbiascicando le parole tra i singhiozzi disse: - Era mio fratello. -
Ero turbata. Restai per alcuni minuti in silenzio e poi dalle mie labbra mi uscì solo uno stupido
- Mi dispiace. -
Avrei voluto dirgli che lo capivo, e certo che lo capivo. Alla morte ormai ero abituata, ma i suicidi mi facevano veramente arrabbiare, così egoistici ti lasciavano un vuoto attorno e sradicavano dalla tua vita le persone che avevi sempre considerato le radici che non ti permettevano di sprofondare. E quando ti ritrovi senza questi appigli, non hai più voglia di chiederti perché vai avanti, o in che modo, e ti ritrovi seduto alle tre di notte davanti ad un bancone a buttar giù un drink dopo l'altro. Come un nottambulo ammutolito, derubato della felicità che questi ladri si portano via con sé.
-Una birra grazie. -
- Ecco a lei signora - disse il barista un po' deluso che anch'io non avessi voglia di parlare.
- E una per il mio vicino –
Ne aveva bisogno. Probabilmente anche lui aveva dovuto identificare suo fratello, come qualche ora prima io avevo dato il nome a quel cadavere ancora bagnato, Elizabeth Gregory.
Mia madre.


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