Quando un dipinto ispira un racconto breve...
Nottambuli di Edward Hopper, 1942 Art Institute of Chicago |
Quella
notte non riuscivo a dormire. Sentivo solo la necessità di
camminare. Mi lasciavo trasportare dalle gambe e dal suono delle
suole contro il marciapiede. Tutto era spento e silenzioso, tutto
tranne il bar Phillies all'angolo. La luce si rifletteva sulla
strada. Alzai lo sguardo. Un uomo di mezza età un po' livido in
faccia sedeva da solo, in un lato del bancone triangolare. Lo sguardo
perso nel bicchiere mezzo pieno e un giornale ripiegato sotto al
gomito. Come assente, non si curava minimamente della coppia davanti
a lui o del barista, ma solo di quel liquido giallastro che gli
avrebbe fatto dimenticare anche per quella sera i suoi tormenti, e i
soldi nel portafogli. Alzò il bicchiere e lo portò alla bocca. Gli
occhi si schiusero. Stava assaporando con gusto l'alcool, lasciando
andare la sua mente offuscata in una vertigine. La coppia di fronte a
lui non parlava. La donna intenta a mangiare e l'uomo troppo
impegnato a fumare e ad indicare i contenitori di birra in fondo alla
sala al barista per farsi riempire i bicchieri vuoti davanti a loro.
L'unico che sembrava fremere dalla voglia di parlare era il barista,
che, con sguardo lucido e un sorriso smagliante, si rivolgeva ai suoi
clienti ogni volta che lo chiamavano. Lasciandolo però, con una
voglia mai soddisfatta. Una compagnia di nottambuli muti.
Probabilmente proprio quel silenzio che faceva al caso mio, in quella
notte insonne.
Entrai
dalla porticina marrone e mi sedetti sullo sgabello di legno. Mi
accomodai meglio sul bancone. Con le dita sfiorai il giornale del mio
vicino. - Posso? -
Questo
si voltò e mi guardò con turbamento. Non mi rispose nemmeno, me lo
passò con uno sguardo dolorante. Il giornale si aprì ad una pagina
con il titolo: SUICIDIO. Quella parola mi tormentava. Il mio vicino
di bancone cominciò a piangere. Non sapevo cosa fare, pensai fosse
uno degli effetti della sbornia, così lo lasciai sfogare.
Quasi
sbiascicando le parole tra i singhiozzi disse: - Era mio fratello. -
Ero
turbata. Restai per alcuni minuti in silenzio e poi dalle mie labbra
mi uscì solo uno stupido
-
Mi dispiace. -
Avrei
voluto dirgli che lo capivo, e certo che lo capivo. Alla morte ormai
ero abituata, ma i suicidi mi facevano veramente arrabbiare, così
egoistici ti lasciavano un vuoto attorno e sradicavano dalla tua vita
le persone che avevi sempre considerato le radici che non ti
permettevano di sprofondare. E quando ti ritrovi senza questi
appigli, non hai più voglia di chiederti perché vai avanti, o in
che modo, e ti ritrovi seduto alle tre di notte davanti ad un bancone
a buttar giù un drink dopo l'altro. Come un nottambulo ammutolito,
derubato della felicità che questi ladri si portano via con sé.
-Una
birra grazie. -
-
Ecco a lei signora - disse il barista un po' deluso che anch'io non
avessi voglia di parlare.
-
E una per il mio vicino –
Ne
aveva bisogno. Probabilmente anche lui aveva dovuto identificare suo
fratello, come qualche ora prima io avevo dato il nome a quel
cadavere ancora bagnato, Elizabeth Gregory.
Mia madre.
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