I frammenti
colorati delle vetrate coprivano il pavimento come un mosaico
variopinto. La luce entrava dagli scheletri ammuffiti delle finestre
a cui la vegetazione si aggrappava.
Entrai facendo
attenzione a non inciampare, sollevando leggermente la gonna del
vestito nero di pizzo. Lo spettacolo era stupendo, i riflessi
colorati dipingevano le pareti di colori sgargianti, proiezioni di
quello che un tempo erano. La nostalgia riuniva i piccoli pezzi di
vetro che avevo visto uniti dietro le tende bordeaux del “Ristorante
sopra la collina”, considerato uno dei migliori ristori di lusso di
Empoli.
Mi ci aveva
portato solo una volta il mio amante, Pierre e subito me ne ero
innamorata. Le luci delle candele vibravano flebili e sottili contro
la notte, la potevamo solo intravedere per le tende tirate. La
piccola fessura di buio era come filtrata dal colore del vetro,
distorcendo i colori al di là, mi sentivo immersa ancora di più in
un mondo parallelo.
Esistevamo solo io
e lui.
La sua mano era
posata sulla mia in un tocco così caldo da farmi formicolare la
pelle.
Mi sentivo viva.
Ci eravamo
conosciuti su un set fotografico. Lui con la camicia color oceano a
risaltargli gli occhi se ne stava seduto in disparte, con la gamba
fasciata dai pantaloni di pelle nera e poggiata sul ginocchio, il
braccio sul bracciolo della sedia e l'altro a sistemare il ciuffo di
capelli biondo ramati che gli accarezzavano i lineamenti dell'est.
Nulla era
imperfetto in quel corpo snello e muscoloso e il suo abbigliamento lo
avvolgeva senza dover sforzare la fantasia per seguirne l'armonia.
Si voltò a
fissarmi. Gli occhi più belli che avessi mai visto, un' acquamarina
senza alcuna sfumatura, limpidi e penetranti. Sembravano volermi
assorbire.
Il suo sguardo era
così intenso come se tutto attorno a noi reggesse solo per
sostenerci, per non farci cadere nel vuoto.
Le sedie rivestite
di velluto rosso, i tavoli apparecchiati con tovaglie di un candido
color crema su cui le posate d'argento luccicavano.
Ma il tempo logora
tutto, la forma, i sentimenti, la vita.
Il ristorante era
stato lasciato cadere in frammenti. Quel ristorante che sembrava un
salotto aristocratico, era diventato un piccolo scrigno in rovina di
tante gemme colorate.
Mi accasciai sul
pavimento, le mani tremolanti che si immersero in quei frammenti.
Prendendone una manciata li lasciai ricadere in uno scroscio simile
alla sua risata. Quella risata che mi accarezzava la pelle facendomi
distendere i muscoli e allentare la tensione. Come se tante carezze
mi toccasero all'unisono, come quando facevamo l'amore.
Eravamo tornati
un'altra volta, ma ormai era troppo tardi. Il locale era già in
rovina. Mi aveva fatto piacere lo stesso vederlo, tutti quei colori
sembravano gridare contro il silenzio dell'abbandono. Pierre rimase
incantato da me mentre giocavo con quei pezzetti sfaccettati. Mi
prese tra le braccia e mi fissò, i nostri occhi riflettevano tutte
quelle gemme di vetro che ci circondavano, e mi baciò. Un bacio così
casto e dolce, così diverso da quelli passionali e sensuali a cui
ero abituata. Per un attimo una tristezza mi percorse la schiena come
un brivido, e il mio gemito tra le sue labbra diede inizio alle
lacrime. Mi strinse a sé ma più lo faceva e più mi sembrava che
prima o poi lo avrei perso.
Quelle gemme
raccontavano una storia e portavano con loro un ricordo. Un ricordo
che condividevamo io e loro, nella nostra muta sofferenza. La
ricordavamo anche per Pierre, che da un anno non poteva ricordare
più, lasciandomi con al collo una di quelle gemme. Una lacrima sulla
quale aveva fatto incidere: “Ricorda te stessa.”
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